Győr – C’è paprika e paprica. Senza scomodare i cultori di Tinto Brass (in tale caso si tratta di un altro tipo di Paprika) non si può attraversare l’Ungheria pensando che quella polvere rossa sia sempre uguale. È un po’ come ritenere tutte le tappe di un grande giro equivalenti, solo perché ovunque ci sono dei ciclisti che pedalano. Una tappa di pianura non è mai speziata come una tappa di montagna. A meno che non succeda quello che è accaduto a Győr.
Cosa potrà mai capitare percorrendo le strade piatte che attraversano la puszta, tra sterminati campi di girasole e cavalli curiosi? Cosa può scombinare il primo arrivo per velocisti di questo Giro d’Italia non ancora in Italia? La risposta sta in un telaio spezzato appoggiato contro una transenna. E ora ci si ritrova a chiedersi se il Giro d’Italia di Peter Sagan sia già finito, dopo appena due giorni.
Neppure Elia Viviani ha troppa voglia di festeggiare la vittoria e chiede notizie dell’ex compagno di squadra, con cui è cresciuto alla Liquigas. Per come è andata a finire, sarebbe stato meglio se fosse arrivata al traguardo la fuga. Verrebbe voglia di riavvolgere tutta la tappa per darle una conclusione diversa. Meno mozzafiato, ma anche meno traumatica.
Neppure il tempo di lasciarsi alle spalle i palazzoni ingrigiti della periferia di Budapest e una decina di corridori se ne va, mentre noi stiamo ancora guardando la statua di Lajos Kossuth in piazza degli Eroi, per notare analogie e divergenze rispetto al busto che gli è stato dedicato in un angolo dell’aiuola Balbo, nel centro di Torino.
Storie risorgimentali che si sposano bene con lo spirito dei fuggitivi. Garibaldino, lo potrebbero definire i più retorici. Chi è votato al cinismo lo considera invece un martirio, tanto sudato quanto prevedibile, all’altare degli sponsor: si parte e si va subito avanti pur sapendo che, quando il gruppo si sveglierà dal torpore, sarà pressoché impossibile resistergli.